Uguaglianza solidale

Ovest Cameroun, 25 marzo 2014

 

Oggi è una grigia giornata di pioggia. “Autunnale”, “settembrina”, si direbbe da noi. Qui è la normalità, durante la stagione delle piogge. Di scrostare il muro dallo spesso muschio della precedente stagione non c’è verso e forse allora è il momento giusto per fermarsi, sedersi e ripensare a quello che è stato. A quello che mi sono definitivamente lasciato alle spalle.

Ora mi trovo nella regione del Cameroun dell’Ovest, a Bafoussam, e trascorrerò il prossimo mese in compagnia della grande famiglia del CIPSED (Centro Interculturale di Promozione Sociale ed Educazione allo Sviluppo).

Ho passato i tre precedenti mesi in Kenya, dalla parte opposta del continente africano. Ed è di questi tre mesi, ormai conclusi, di cui sento il bisogno di conservare il ricordo.

L’idea di partire è nata in me quasi automaticamente, nei mesi di Aprile/Maggio dello scorso anno; sapevo che mi sarei laureato attorno a fine Novembre/inizio Dicembre, il che stava a significare che avrei ripreso la laurea specialistica con un semestre di ritardo. Da ciò la mia decisione di non continuare, almeno per quest’anno, l’Università, ma di smettere di studiare per vivere un’esperienza diversa. Le ipotesi erano due: andare all’estero senza un progetto preciso nell’intento di imparare/perfezionare una lingua straniera o recarmi dove pensavo ci fosse davvero bisogno. Si badi, non bisogno di ME in quanto elemento indispensabile, ma bisogno di una persona (qualunque) che volontariamente decidesse di impegnarsi per portare avanti dei progetti iniziati con comunità di quello che, con una definizione infelice,è ad oggi chiamato Terzo Mondo. Col senno di poi, e non senza un pizzico di amarezza, ho realizzato tuttavia che il motivo di fondo della prima come della seconda ipotesi era il medesimo: egoismo. Nel primo caso non troppo velato e tutto sommato piuttosto superficiale: fare un’esperienza per arricchire il proprio patrimonio culturale, aprire i propri orizzonti e tutto questo genere di cose che si è soliti dire in occasioni come queste. Nel secondo caso, al contrario, almeno per quanto mi riguarda, questo egoismo di fondo si è celato dietro una spinta altruistica; ne è stata una sua parte necessaria ed integrante. Non sono partito (solamente) per fare del bene agli altri o per dare (solo) il mio contributo. Sono partito perché sentivo il bisogno di lavarmi la coscienza: per essere nato da questa (anche se,visto dove sono ora, sarebbe più corretto dire “quella”) parte di mondo, che sembra ormai aver abbandonato anche la più minima forma di consapevolezza del fatto che esista, sotto i suoi piedi, un altro intero mondo, che sta pagando le spese del nostro benessere, degli elementi che lo rendono possibile. Sentivo il bisogno di lavare i miei panni sporchi. E ho deciso di farlo nell’acqua degli ultimi. Assieme, agli ultimi.

Così il 6 dicembre, atterrato a Nairobi, mi trovo su un’auto in viaggio per Nchiru (contea di Meru), diretto al St. Francis Children Village. La struttura, che conta quasi 300 bambini tra i 5 e i 18 anni, nasce nel 1999, grazie alla collaborazione fra un padre tanzaniano (Father Francis Limo Riwa) ed un vulcanico brianzolo (Giancarlo Magni). L’anno successivo nasce, ad Osnago, una vera e propria associazione, finalizzata alla coordinazione e al supporto del complesso: l’Associazione Amici di San Francesco (sito: www.sanfrancesco-osnago.it). Il progetto si figura come obiettivo primario quello di tentare di arginare la dilaniante ferita (umana e sociale) dei bambini di strada: giovani di tutte le età, dall’infanzia alla pubertà, abbandonati, esposti dalle famiglie per insufficienza di mezzi (economici e materiali) per il loro sostentamento, si aggirano per le grandi città senza meta alcuna, avendo come unica compagna di vita una piccola bottiglietta di plastica, riempita con colla industriale. Questo mortale “grillo parlante” li fiancheggia nella lotta contro la fame, alleviandone i quotidiani morsi; ma il prezzo da pagare è alto: se consumata con regolarità (come avviene nella stragrande maggioranza dei casi), conduce alla morte nel giro di pochissimo tempo. A questa condizione di infanzia vagabonda e di privazione si associa, inevitabilmente, la piccola criminalità, come unico strumento di approvvigionamento della quotidiana pagnotta (da noi sempre e comunque presente sulla tavola). E siccome non v’è limite al peggio, a ciò si aggiunge la mancanza completa di istruzione (impossibilità di pagare le rette e impiego del tempo per cercare di sopravvivere) e, di conseguenza, la assenza di un qualsiasi futuro. Una intera generazione sprofonda i piedi in un abisso.

Nasce allora il Villaggio, come scialuppa di salvataggio, come porto sicuro di attracco. Garantisce ai bambini gli elementi fondamentali per poter vivere il (e non semplicemente sopravvivere al) presente: due pasti caldi al giorno e due colazioni (una leggera alla mattina presto ed una più sostanziosa a metà mattinata), un tetto sotto cui stare durante il giorno e un letto in cui poter dormire la notte, luoghi e tempo per poter giocare e di-vertirsi dallo studio. Ma offre anche, cosa forse ancora più importante, la preziosa semente per il futuro: l’istruzione (peraltro di ottima qualità, essendo la media dei risultati dei bambini una delle più alte nell’intero stato) e la conoscenza; assieme alla quale, silenziosamente, prendono forma progetti, sogni.

I bambini cominciano così a muovere i loro passi, dal fondo del baratro, verso il suo ciglio e, da qui, a gettare uno sguardo su quello che potranno essere. Come soggetti di vita. Come uomini.

Per tre mesi ho così condiviso con loro idee, riflessioni, sogni, progetti mancati (per i più grandi) e disegni futuri. Ho condiviso e cercato di dare conforto al pianto di alcuni e alle preoccupazioni di altri. Per un certo periodo, quando ero il solo bianco al villaggio (a Gennaio ho condiviso l’esperienza con una coppia di volontari e da metà Febbraio, per un mese, con un gruppo di venti persone), ho mangiato alla loro tavola, nelle medesime scodelle, coi medesimi cucchiai, sopportando anche alcuni sorrisetti di scherno misto a stupore, come a dire “Ma guarda questo bianco!Chi glielo fa fare di mangiare con noi, se potrebbe tranquillamente permettersi di mangiare pasta, carne ed ogni altro ben di dio?!”. Già…chi/cosa me lo faceva fare? Perché non fare semplicemente come tutti gli altri volontari bianchi che vengono al villaggio?

A fianco all’aspetto emotivo e relazionale c’è stato poi il lavoro manuale. Sempre e costantemente a fianco a John (mio gemello di colore, “separati alla nascita”), Christopher e David (che si occupano, nel corso intero, di ogni genere di manutenzione necessaria) e Nicholas. Ed è stata questa, penso, la sfera che più ha svolto le veci di collante fra me e la realtà in cui ho vissuto. Ciò che ha fatto sì che, durante la mia permanenza al Villaggio, io non abbia mai avuto una sensazione diversa da quella del sentirmi a casa. Perché lavorare CON qualcuno (e non A FAVORE di qualcuno, come capita nei casi in cui il volontariato si trasforma in “beneficenza dall’alto”) significa con-dividerne la posizione all’interno di una certa struttura; significa rinunciare al ruolo che ci si aspetterebbe essere automaticamente assegnato dal colore della pelle (e dalla parte di mondo di provenienza) per abbracciare un altro tipo di destino. E così prende forma un altro tipo di esperienza. Un’esperienza che, benché animata da una velata forma di egoismo, abbandona l’abito semplicistico del “dare” e indossa quello del “fare con”. Le vesti, finalmente mondate, dell’uguaglianza solidale.

Francesco Braguti